di Mark Ravenhill

traduzione di Enrico Luttmann

regia di Elio De Capitani

scene e costumi di Carlo Sala

luci di Nando Frigerio

suono di Renato Rinaldi

con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Giancarlo Previati, Cristian Maria Giammarini, Marina Remi, Filippo Timi

produzione Teatridithalia Milano, Teatro dell’Elfo

In Polaroid molto esplicite (1999) Mark Ravenhill, esponente di punta dei “nuovi arrabbiati” che hanno ravvivato la drammaturgia inglese degli ultimi anni Novanta, riflette programmaticamente sulle differenze tra due generazioni, separate più o meno da un ventennio, e sui loro atteggiamenti di fronte alla vita e alla società. La determinazione un po’ astratta del tema della pièce viene tradita dalla scelta di sei personaggi un po’ troppo esemplari. Nick (Giancarlo Previati) è appena uscito dal carcere, dov’è rimasto per quindici anni dopo aver attentato alla vita del capitalista d’assalto Jonathan (Elio De Capitani), su istigazione di Helen (Cristina Crippa), giovane estremista riconvertita al compromesso e alla democrazia, ora in carriera nel partito laburista. I tre ventenni sono Tim (Cristian Maria Giammarini), che sta morendo di Aids e ha comprato via internet i servigi di un giovane go-go boy russo, Victor (Filippo Timi), ed è amico di Nadia (Marina Remi), ballerina di lap dance che ha l’abitudine di farsi massacrare di botte da un brutale cliente-fidanzato. Il primo terzetto è cresciuto in un’epoca di forti conflitti sociali e ha vissuto il crollo delle ideologie. Grazie a quella macchina del tempo che è il carcere, Nick è rimasto puro e duro, anche se si sforza malamente di adeguarsi alla nuova situazione. Helen, guidata dal principio di realtà, ha rimosso il massimalismo rivoluzionario per approdare al professionismo politico. Jonathan ha scelto di navigare sul caos: il vincente è lui, anche se porta ancora nella carne i segni dell’attentato. Naturalmente ha fatto i soldi ed è diventato potente e disumano, oltre che mefistofelicamente malvagio (e la regia ce lo ricorda attraverso un frammento cinematografico del Faust di Gounod). I tre ragazzi invece vivono in un’isteria di pseudo-felicità perseguita a tutti i costi. Il conflitto non lo vedono o lo rimuovono, abbagliati dalla superficie e dal trash – e com’è ovvio vanno incontro alla disillusione che è al cuore di ogni romanzo di formazione. E’ una contrapposizione Sensi di colpa e vendetta contrapposti alla totale innocenza dell’amoralità Generazionalmente disilluso, Ravenhill si pone a metà tra i due gruppi e lancia uno sguardo criticamente benevolo sugli uni e sugli altri. Guarda la cupa disperazione dei più vecchi, il loro utopismo rivoluzionario o apocalittico, i loro vicoli ciechi ma anche una sostanza umana che l’esperienza ha ispessito e indurito. Vede, dei più giovani, lo slancio vitale e la freschezza, l’ingenua incapacità di guardare oltre la propria esperienza personale, oltre il presente, oltre il piacere istantaneo di sesso e droghe, ma avverte sotto la superficie luccicante dell’ossessiva ricerca della felicità una gelida disperazione. Vede in Tim la volontà di ingannarsi, il Nadia e Victor una esilarante miopia. Per certi aspetti, Polaroid molto esplicite è una specie di esperimento teatrale: che succede se metto insieme tre personaggi-tipo della generazione che mi precede e tre personaggi tipo di quella che mi segue? In questo (più che nei confronti tra i personaggi), è un testo ideologico, dove gli incontri e le reazioni diventano in qualche modo prevedibili, predeterminati, tanto la rancorosa cupezza dei vecchi quanto la forzata sventatezza dei primi. Ma nel testo se ci sono intelligenza, generosità e mestiere, quella che sembra mancare, alla fine, sono la radicalità e la crudeltà necessarie perché il testo possa davvero graffiare. La regia di Elio De Capitani costruisce intorno a questo apologo uno spettacolo ambizioso, un melodrammone tra il punk e il porno, ma con venature brechtiane nella recitazione. Carlo Sala ha affrescato una enorme parete-sipario a pannelli mobili, dietro i quali si aprono diversi tre luoghi deputati, mentre il proscenio è invaso dalle sedie e dai tavolini di un bar. Inserisce nello spettacolo un elemento metaforico: pesanti involti di corde che maneggiano soprattutto Nick e Helen. Ma questo segno resta come un corpo estraneo al tessuto dello spettacolo, senza raggiungere la forza ossessiva del simbolo. Resta dopo due ore e mezzo l’impressione di un testo e di uno spettacolo più interessante nelle intenzioni che nella realizzazione.

Fonte: di Oliviero Ponte di Pino su ateatro.